FRANCESCO D’ASSISI E LE CITTÀ

A differenza di tanti altri personaggi della sua epoca, e delle epoche precedenti, Francesco d’Assisi è stato tramandato come un santo vivente, e non soltanto come un santo rappresentato. Nella sua vita a più riprese gli si è presentato il problema del rapporto con le città: fuori di esse? Contro di esse? da parte di un uomo che aveva effettuato una scelta prioritaria per la vita eremitica.

Agli inizi della sua esperienza di vita religiosa si collocava l’episodio della rinuncia ai beni paterni, che fu modulato negli scritti agiografici, le legendae, in maniere diverse, ma in sostanza organiche nella narrazione dell’accaduto. Nella rappresentazione ufficiale offerta da Giotto e dalla sua bottega, nel ciclo di affreschi della chiesa superiore della Basilica assisana, il santuario al cui interno il corpo del santo giaceva celato e irraggiungibile, si mostra Francesco che, nella piazza cittadina, rinnega le fondamenta del patto su cui posava il Comune. Allo scopo di sottrarsi al consorzio urbano, con la rinuncia ai beni paterni, egli si rifugia all’interno delle istituzioni della Chiesa, che, per quanti intrecci potessero sussistere nella realtà, erano per definizione distinte e separate.

La predicazione era al centro delle iniziative di Francesco e dei suoi primi compagni, lo strumento con cui essi intendevano  tramettere la loro proposta evangelica al di fuori delle strettoie di una predicazione istituzionale (quale divenne, invece, il ministero dei frati Minori, più tardi detti Francescani). Per la sua configurazione poteva essere aspramente respinta. Al di fuori della tradizione agiografica strettamente francescana è filtrato il ricordo e la narrazione di un importante episodio di tale rifiuto, nelle cronache di un monaco benedettino inglese, Matthew Paris (tra l’altro latore di una versione della stigmatizzazione sulla Verna ben diversa dall’usuale racconto). Agli inizi della propria esperienza religiosa, rifiutato dalla cittadinanza romana, Francesco d’Assisi rivolgeva la sua predica agli uccelli di rapina che si trovavano in un immondezzaio al di fuori delle mura. Palese era stato il rifiuto del pezzente, quale appariva Francesco, seguito però da un riconoscimento del santo. A margine del manoscritto del monaco inglese fu schizzato un disegno di quell’episodio, testo e disegno rimasti un unicum.

La predica agli uccelli ha invece trovato ampio spazio nelle legendae agiografiche e, dopo la morte dell’Assisiate, è divenuta immediatamente, insieme alla stimmatizzazione sulla Verna, l’attributo iconografico del nuovo santo – una rappresentazione visiva il cui significato era comprensibile anche a chi non fosse in grado di leggere (all’epoca, quasi tutti). Tale rappresentazione, sia negli scritti sia nei dipinti devozionali, era oleografica in maniera francamente monotona. Un’illustre storica, Chiara Frugoni, ha voluto peraltro riscontrare  in alcune raffigurazioni la presenza di differenti generi di uccelli, e di conseguenza il richiamo a differenti categorie sociali (come nell’immagine della tavola dipinta da Giotto). Resta il fatto che la predica agli uccelli era per definizione una forma di predicazione non ufficiale, che si poteva svolgere soltanto al di fuori delle mura cittadine, come riferiscono le stesse fonti agiografiche. Se la stigmatizzazione di Francesco conferisce un sigillo sacrale alla sua vicenda personale, nella predicazione agli uccelli, al di là dell’accezione miracolistica e, in seguito, dell’appropriazione ecologica, restava un potenziale sottofondo antagonistico al mondo delle città.

Al di fuori della cinta delle mura urbane portava anche un racconto la cui narrazione era più tardiva, l’episodio del lupo di Gubbio. Si era entrati nella dimensione prodigiosa del miracolismo, trasfigurando una vicenda che, se realmente verificatasi, aveva avuto per protagonista un feudatario del contado, per il quale il nome Lupo rimandava a una tradizione familiare – così almeno aveva finemente argomentato Franco Cardini in un suo scritto giovanile. Restando comunque nei limiti della narrazione agiografica e della rappresentazione nell’iconografia devozionale, che da quella traeva spunto e ispirazione, il teatro degli avvenimenti si situava al di fuori della cinta urbana e Francesco si collocava nello spazio tra la città e il bosco. Nel ‘400 il Sassetta dipinse l’episodio, ponendo la scena al di fuori di una porta urbica, con in primo piano un notaio, che prendeva nota dell’accordo stretto dal santo e dalla belva: l’oggetto dell’accaduto era la stipulazione di un patto di pacificazione, che si poteva concludere con l’equivalente di una stretta di mano, quando il lupo poneva la zampa nella mano del santo.

Nell’esperienza vissuta da Francesco d’Assisi la ricerca della pace non era soltanto la premessa di un racconto agiografico, in un’epoca in cui le città erano insanguinate dagli scontri tra le fazioni in lotta per il potere. Egli stesso aveva intrapreso la propria esperienza religiosa dopo essere finito nelle carceri a Perugia, perché aveva militato nella fazione assisana che era stata sconfitta nella battaglia di Collestrada, nella piana tra Perugia e Assisi. Dalle legendae agiografiche agli affreschi giotteschi di Assisi si arriva all’episodio della cacciata dei demoni da Arezzo, quando il rito dell’esorcismo viene messo in atto da frate Leone, che era un sacerdote (mentre lo statuto ecclesiastico di Francesco è avvolto in un’aura di ambiguità, anche se è chiaro che a un certo punto divenne un “chierico”, verosimilmente un suddiacono – primo gradino verso la completezza della condizione sacerdotale). Che i variopinti demoni che si libravano sopra la città toscana altro non fossero se non la rappresentazione simbolica delle fazioni cittadine in lotta, non si dà adito a dubbi.

Francesco riconosceva peraltro l’autorità del Comune. In occasione della riunione di un capitolo generale dei frati, il Comune di Assisi fece costruire per loro una casa. Furibondo egli iniziò a demolirla dal tetto, perché non divenisse una loro proprietà, ma quando gli fu detto che la proprietà era del Comune si fermò.

Di nuovo una fonte estranea all’agiografia minoritica documenta sulla predicazione effettiva dell’Assisiate. La tramanda la cronaca di un chierico, Tommaso, che per studiare diritto a Bologna era arrivato da Spalato (città di cui divenne poi vescovo). Il giorno festività ferragostana dell’Assunta dell’anno 2022  Francesco predicava sulla Piazza Maggiore: «tutta la sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace» (in una diversa testimonianza dello stesso episodio da parte di un altro testimone oculare, Federico Visconti, divenuto in seguito arcivescovo di Pisa, si sottolineava soltanto la devozione popolare per il personaggio la cui fama di santità era ormai coltivata da molti).

Francesco d’Assisi in gioventù aveva nutrito ambizioni cavalleresche (anche su questo argomento il giovane Franco Cardini scrisse pagine colte e affascinanti), poi trasfigurate – ma non obliterate – nelle legendae agiografiche. Quelle fonti non riuscirono a nascondere episodi di reale tensione, quando a Perugia un gruppo di cavalieri cercò di impedirne con una cavalcata la predicazione. Eppure furono i cavalieri mandati dal Comune assisano a scortare il frate morente nell’ultimo viaggio, che si concluse nella Porziuncola, la chiesetta rurale di S. Maria degli Angeli nella piana sottostante la città: per impedire che altri si impadronisse di quello che era ormai divenuto un corpo santo.

(rielaborazione di un testo letto a Sulmona il 1° luglio 2023)