FRANCESCO D’ASSISI E I SUOI FRATRES

FRANCESCO D’ASSISI E I SUOI FRATRES

 Questo testo è stato letto a Milano il 9 novembre 2023, all’apertura della manifestazione Dalla fraternità alla Regola. Storia ed eredità di Francesco d’Assisi nell’occasione dei centenari francescani, tenuta presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Premessa

Lasciamo da subito la parola a Francesco d’Assisi:

«Il Signore gli rivelò inoltre il saluto che i frati dovevano dire, e Francesco lo fece notare nel suo Testamento così: “Il Signore mi rivelò che dovessi dire come saluto: Il Signore ti dia pace”» [FF  1618]. Lo ricordarono per decenni le narrazioni agiografiche redatte dai frati Minori.

In maniera inaspettata frate Minore si fece Edoardo Gemelli, brillante allievo a Pavia del premio Nobel per la medicina Camillo Golgi. Divenuto frate Agostino scrisse alcune pagine su “Come san Francesco amava i suoi”. Eccone alcuni passi:

«San Francesco ama i suoi e stabilisce l’obbedienza sul fondamento dell’amore reciproco: materno nei superiori; filiale e fraterno nei dipendenti. […] Ama i suoi, li comprende, li previene, li calma […]. Alla invocazione dell’ultimo dei suoi risponde con pronta bontà […]. La preoccupazione della sua crescente famiglia spirituale lo assilla […] non ha mai preso atteggiamenti solenni ma sempre materni».

  1. Francesco come madre

Il problema dei rapporti con i suoi fratres percorre l’intera esistenza dell’Assisiate

(non dimentichiamo che in latino, come in molte lingue moderne, non esiste la differenza che in italiano distingue nel lessico “frati” e “fratelli”).

Anzi, sono proprio i fratres a marcare una svolta decisiva nella sua esperienza religiosa, come enuncia nel Testamentum che Francesco detta sul liminare della propria esistenza terrena:

«E dopo che il Signore mi diede dei fratelli, nessuno mi indicava che cosa dovessi fare: ma lo stesso Altissimo mi mostrò che dovevo vivere secondo il modello del santo Vangelo. E io con poche parole e semplicemente [lo] feci scrivere e il signor papa me [lo] confermò» [T 14-15].

Nel momento in cui i primi fratres iniziarono a sciamare per il mondo, nell’Europa occidentale e nel Vicino Oriente, nel 1219 con loro arrivò a Parigi una “parabola” attribuita a Francesco. La narrazione fu inclusa nei Sermones super evangelia dominicalia di un inglese, Oddone di Cheriton. Nella successiva rielaborazione agiografica si accentuerà il carattere ecclesiastico del racconto. La matrice era invece la preoccupazione dell’Assisiate per i propri fratelli:

«Un giorno fu sottoposta a frate Francesco la questione: chi avrebbe provveduto al sostentamento dei suoi frati, visto che accettava indifferentemente tutti quelli che si presentavano. Rispose con questa parabola: Un re amò una donna nel bosco e la rese incinta. Essa diede alla luce un figlio e per un po’ di tempo lo nutrì per conto suo; poi lo portò alla reggia perché da qui in avanti provvedesse il re al suo sostentamento. Appena fu recato al re l’annuncio della venuta di quella donna, disse: “Tanti uomini perfidi e inutili mangiano alla mensa regia, è ben giusto che mio figlio possa prendere il suo nutrimento tra loro”.

E frate Francesco diede questa interpretazione: “io sono la donna che il Signore ha reso feconda con la sua parola, ed ho generato questi figli spirituali. Se dunque il Signore provvede a tante persone ingiuste, non c’è da stupirsi che egli provvederà al sostentamento particolarmente per i propri figli”» [FF 2247].

Nel racconto emerge l’acculturazione del giovane Francesco, quella dimensione cavalleresca che precedette la sua scelta religiosa, rimanendo nel sottofondo della propria esperiena. In alcune occasioni egli disse anche:

«Questi frati sono i miei cavalieri della tavola rotonda» [FF 1624; 1766].

Diversi episodi tradiscono la giovanile acculturazione di Francesco, in chiave cavalleresca, e la sua rielaborazione religiosa.

Altre tradizioni gli si prospettarono nel corso della vita. Al rientro in Italia, nel 1220, dopo un viaggio in Egitto e in Palestina, dove non subì il martirio, a differenza degli altri minoriti che si erano a loro volta recati in Marocco, risale un testo su La religiosa abitazione negli eremi – in cui potrebbero essere entrati elementi assorbiti da contatti con il monachesimo orientale:

«Coloro che vogliono vivere religiosamente negli eremi siano tre fratelli o quattro al più: due di essi siano madri e abbiano due figli o almeno uno. Questi due che sono madri seguano la vita di Marta; i due figli seguano la vita di Maria […] Di quando in quando i figli assumano l’ufficio di madri, come sembrerà opportuno disporre, per avvicendarsi temporaneamente».

In realtà, è probabile che un testo di carattere normativo, per la minuzia delle previsioni sul comportamento dei fratres, risalga agli anni in cui si stava faticosamente elaborando una regola definitiva.

Nel Memoriale scritto negli anni ’40 del ‘200 dal frate abruzzese Tommaso da Celano, l’agiografo che aveva redatto la Vita beati Francisci a ridosso della canonizzazione dell’Assisiate nel 1228, si riferisce una “visione” che Francesco avrebbe avuto “nel sonno”. Era un momento in cui egli era particolarmente inquieto per il destino futuro dei suoi fratres, di nuovo gli anni della faticosa regolarizzazione dell’esperienza minoritica. Più stringata, benché non meno preoccupata di inquadrarla in un contesto ecclesiastico, era la narrazione della coeva Legenda trium sociorum:

«Gli parve di vedere una piccola gallina bruna, con le zampette piumate come una colomba domestica. Aveva intorno una quantità di pulcini tale, che non riusciva a riunirli sotto le ali, e così i piccoli erano costretti a girarle intorno.

Svegliatosi, prese a riflettere su quel sogno; e subito lo Spirito santo gli fece capire che quella chioccia simboleggiava lui stesso. “Sono io – si disse – quella gallina, perché piccolo di statura e bruno di colorito, e  che devo essere semplice come una colomba e volare in cielo con le piume delle virtù. Il Signore, nella sua misericordia, mi ha dato e darà molti figli, che non sono in grado di proteggere con le mie sole forze: bisogna quindi che li affidi alla santa Chiesa, la quale li proteggerà e guiderà all’ombra delle sue ali”» [FF 1477].

  1. Il percorso che condusse alla regola approvata

Si svolgevano le trattative con la curia papale, perché si addivenisse al testo di una regola che potesse essere approvata dal papa, come avvenne alla fine del 1223. Nel periodo che precedeva la Pentecoste di quell’anno, quando si sarebbe riunito il capitolo generale dei minoriti, Francesco scriveva a un ministro. Era palesemente un momento di difficoltà nei rapporti all’interno della fraternità:

«Io ti dico come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Dio, e tutti coloro che ti saranno di ostacolo, sia fratelli sia altri, anche se ti picchiassero, tutto questo devi ritenere come una grazia» e più oltre: «

abbi sempre misericordia per tali fratelli» [EpMin 2, 11]

In quella epistola era contenuta la proposta del dettato di un capitolo, che peraltro, almeno in quei termini, non entrò a far parte della regula: «Di tutti i capitoli che sono nella Regola che trattano dei peccati mortali, con l’aiuto del Signore, nel capitolo di Pentecoste, col consiglio dei fratelli faremo questo tale capitolo» [EpMin 13]

Nel contesto del processo di normalizzazione dell’esperienza minoritica erano dunque insorte notevoli tensioni tra frate Francesco e i suoi fratelli. Un racconto è stato tramandato nelle raccolte agiografiche dell’ultimo quarto del ‘200 e degli inizi del ‘300:

«Mentre Francesco era al capitolo generale, detto delle Stuoie, che si tenne presso la Porziuncola e a cui intervennero cinquemila fratres, molti di questi, uomini di cultura, accostarono il cardinale Ugolino, il futuro Gregorio IX, che a sua volta partecipava all’assise  capitolare. E gli chiesero che persuadesse Francesco a seguire i consigli dei frati dotti».

Era accaduto che l’esperienza di uno sparuto gruppetto assisano, in sostanza di laici, avesse attirato un grande numero di chierici.

«Udita che ebbe Francesco l’esortazione del cardinale su tale argomento, lo prese per mano e lo condusse davanti all’assemblea capitolare, dove disse: “Fratelli, fratelli miei, Dio mi ha chiamato a camminare la via della semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio quindi che mi nominiate altre regole, né quella di sant’Agostino, né quelle di san Bernardo o di san Benedetto”»

In effetti il problema era rappresentato da una prescrizione del IV concilio del Laterano, dove nel 1215 era stato stabilito che qualsiasi nuovo Ordine religioso avrebbe dovuto adottare una regola tra quelle già esistenti, salvo darsi delle consuetudines particolari.

«“Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un pazzo nel mondo”»

Le raccolte agiografiche hanno conservato il calco della lingua volgare: «novellus pazzus» – un’espressione che peraltro rimanda direttamente a una lettera di san Paolo.

«“questa è la scienza alla quale Dio vuole che ci dedichiamo! Egli vi confonderà per mezzo della vostra stessa scienza e sapienza. Io ho fiducia nei castaldi del Signore, di cui si servirà per punirvi. Allora, volenti o nolenti, farete ritorno con gran vergogna alla vostra vocazione”.

Stupì il cardinale a queste parole e non disse nulla, e tutti i frati furono pervasi da timore» [FF 1673].

La preoccupazione di Francesco per i suoi fratelli si esprimeva con diverse modalità. Nel Memoriale di Tommaso da Celano si riferisce di un’altra “visione”:

«Al tempo in cui i frati tenevano adunanze per discutere la conferma della Regola, il Santo, che era molto preoccupato della cosa, fece questo sogno. Gli sembrava di aver raccolto da terra sottilissime briciole di pane e di doverle distribuire a molti frati affamati, che gli stavano attorno. E siccome esitava temendo che briciole così fini, come piccoli granelli di polvere, gli sfuggissero dalle mani, si udì una voce che gli gridava dall’alto: “Francesco, con tutte le briciole forma una sola ostia e dalla da mangiare a chi vuole”» [FF 799].

  1. Rapporti non facili tra Francesco e i fratres

I rapporti dell’Assisiate con i fratres non furono certamente né semplici né indolori.

Alla severità di Francesco nell’assicurare che la minoritas non fosse offuscata corrisponde l’episodio che lo mise a confronto con un fratello:

«Un novizio che sapeva leggere, per quanto non bene, il salterio aveva ottenuto dal ministro generale il permesso di averlo. […]

Giorni dopo, Francesco sedeva accanto al fuoco. Il novizio gli fece nuovamente parola del salterio. E Francesco: “Vedi, quando avrai avuto il salterio, bramerai avere il breviario. E avuto il breviario, ti assiderai in cattedra, come un solerte prelato, e ordinerai al tuo fratello: ‘Portami il breviario’”.

E dicendo questo, con grande fervore di spirito Francesco prese della cenere, se la pose in capo, poi girando la mano sulla testa come uno che se la sta lavando, diceva: “io il breviario! io il breviario!”. Così ripeté molte volte, passando la mano sul capo. Il novizio arrossì, allibito» [FF 1683].

Anche se pervenuto in una compilazione tardiva, un apologo De vera letitia tradisce l’esistenza di forti tensioni all’interno della fraternità (anche se, nell’insieme, la narrazione dell’episodio lo curva in una funzione agiografica):

«Lo stesso [frate Leonardo] raccontò che un giorno il beato Francesco a Santa Maria [la Porziuncola] chiamò frate Leone e gli disse: “Frate Leone, scrivi”. [***] “Scrivi, disse Francesco, qual è la vera letizia”» e, dopo avere elencato diverse circostanze, si arrivava  al punto centrale della narrazione: «Ma qual è la vera letizia? Torno da Perugia, e in piena notte vengo qui e il tempo d’inverno è fangoso e molto freddo al punto che all’estremità della tonaca si formano pendagli d’acqua congelata e questi mi battono sulle gambe e il sangue sgorga da tali ferite. E immerso nel fango, nel freddo e nel ghiaccio arrivo alla porta e dopo che ho a lungo bussato e chiamato viene un frate e chiede: “Chi sei?” Ed io rispondo: “frate Francesco”. E quello dice: “Vattene, questa non è un’ora decente per andare in giro; non entrerai”. E a me che insisto ancora, egli risponde: “Vattene, tu sei un semplice e un ignorante; ormai non puoi venire tra noi; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. Ed io ancora me ne sto davanti alla porta e dico: “Per amore di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quello risponde: “Non lo farò. Va’ all’ospizio dei crociferi e domanda là”».

  1. Finalmente la Regula

ella chiesa inferiore della Basilica assisana, santuario eretto sopra la definitiva sepoltura del corpo del santo, tra le sue reliquie – recentemente restaurate e più adeguatamente esposte – si trova la pergamena originale con la bolla Solet annuere di Onorio III, datata 29 novembre 1223, che contiene il testo della Regula minoritica, approvata dal papa.

Anche se non per la sua materialità, la reliquia rimandava alla autorialità dell’Assisiate, che a rigore non ne potrebbe essere considerato l’autore in senso proprio. Peraltro egli interviene all’inizio in una chiave davvero inconsueta dal punto di vista istituzionale:

«La regola e la vita dei fratelli Minori è questa: ossia osservare il santo evangelo del Signore nostro Geù Cristo, vivendo in obbedienza, senza proprietà e in castità.

Frate Francesco promette obbedienza e ossequio al signor Papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate Francesco e ai suoi successori» [RB I, 1-3].

Si noti che, nell’intestazione della lettera papale, l’approvazione viene indirizzata a frate Francesco, facendo ricorso, in via eccezionale, a un termine come “ordo”.

Non si dice che egli fosse il “ministro” generale. A lui peraltro era previsto subentrassero “successori” – la cui fisionomia istituzionale viene definita dalle disposizioni seguenti.

In maniera palese la autorialità di Francesco, in un testo che si viene quasi indotti a ritenere non del tutto suo – vuoi perché esito della normativa approvata (e vissuta) dalla fraternità minoritica negli anni precedenti vuoi perché adesione alla tradizionale normativa canonistica -, rimandava a un ruolo carismatico che egli ancora incarnava, e in qualche modo continuerà a essere invocato nelle contrapposizioni che nei secoli successivi, a più riprese, si ingenerarono all’interno delle Ordine dei frati Minori, nel contesto delle sue diverse configurazioni istituzionali.

In un testo che riflette l’andamento della normativa canonistica, la presenza di frate Francesco si impone con la forza, negli inserti caratterizzati da una “Ich-Form” del tutto inconsueta nel linguaggio giuridico (il cui lessico al contrario graduava la sostanza degli interventi).

Ripetutamente appare nel testo della regula l’espressione moneo et exhortor – quindi un ammonimento e un’esortazione -, già a partire dal capitolo II, dove, subito dopo le prescrizioni concernenti le povere vesti dei frati Minori, Francesco ritenne opportuno inserire delle parole loro indirizzate direttamente, in sostanza affinché essi non si inorgoglissero a sproposito per quanto riguardava la propria scelta e la propria condizione:

«Li ammonisco ed esorto a non disprezzare né giudicare gli uomini che vedono vestiti con vesti morbide e colorate, che fanno uso di cibi e bevande raffinati, ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso» [RB II, 17].

D’altra parte, proprio nel capitolo IV, Quod fratres non recipiant pecuniam, il contenuto del severo divieto relativo al denaro indicava assai chiaramente il valore pregnante che Francesco d’Assisi assegnava a una forma verbale, Precipio firmiter   nella regula più volte utilizzata:

«Ordino fermamente a tutti i fratelli di non accettare in alcun modo monete o denaro per sé o per interposta persona» [RB IV, 1]

Quegli “inserti” erano dunque indirizzati, in maniera diretta, ai suoi amati fratres:

«Questa è la sublimità di quell’altissima povertà, che ha costituito voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del regno dei cieli, vi ha fatto poveri di cose e vi ha innalzati con le virtù. Questa sia la vostra parte di eredità, che conduce nella terra dei viventi. E aderendo totalmente a questa povertà, fratelli amatissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo» [RB VI, 4-6].

Nel passaggio dall’esortazione alla prescrizione, da parte di Francesco si consegnavano al dettato definitivo della Regula indicazioni fondamentali, a quel punto non più affidate soltanto alla sua personale autorità ovvero all’influenza dei suoi scritti, quanto alla autorevolezza di un testo normativo che avesse ricevuto l’approvazione formale da parte della Chiesa di Roma.

  1. Le lettere francescane

Fatto alquanto inconsueto per l’epoca. Francesco d’Assisi scriveva lettere. Una di esse è pervenuta sino a noi – verosimilmente perché considerata una reliquia, e quindi conservata, malgrado il suo carattere personale, accentuato dall’essere autografa (una rarità quasi assoluta per l’epoca). Si trattava di un biglietto, indirizzato a frate Leone, uno dei socii che gli fu più vicino negli ultimi anni della vita. Il suo testo manifestava la profondità di un legame nello stesso fraterno e materno: «Così ti dico, figlio mio, come una madre» si legge all’inizio. E si chiude in questo modo: «E se ti è necessario, per avere ulteriore consolazione e vuoi tornare da me vieni».

A frate Leone frate Francesco consegnò anche una chartula, sulla quale aveva personalmente vergato le Laudes Dei altissimi, da un lato, e una benedizione particolare per lo stesso Leone, dall’altro (attualmente conservata come reliquia nella basilica assisana).

Quelle lettere si fecero assai fitte negli anni che seguirono l’approvazione della Regula da parte di papa Onorio III, alla fine del 1223: quasi che Francesco non volesse interrompere il legame vitale che lo univa ai propri fratres. Non ne sono peraltro pervenute redazioni autografe. Destinate in vario modo alla fraternitas che era stata regolarizzata in un Ordine, hanno un notevole rilievo in particolare il biglietto indirizzato ad Antonio di Padova, e soprattutto una Lettera  a tutto l’Ordine.

Scritta a ridosso dell’approvazione della Regula alla fine del 1223, e indirizzata al teologo portoghese Martino da Lisbona, che si era fatto frate Minore con il nome di Antonio, la lettera affrontava un argomento destinato a diventare sempre più spinoso nel corso degli anni a venire:

«Mi sta bene che tu insegni la sacra teologia ai frati, purchè in questo studio tu non spenga lo spirito di orazione e devozione, come è stabilito nella regola».

Dopo l’approvazione della Regula si collocava soprattutto una Epistola toti Ordini missa, un testo particolarmente ampio, che – almeno secondo una fonte più tardiva – rifletterebbe temi e problemi che Francesco avrebbe voluto fossero inseriti nella regola approvata, senza peraltro riuscirvi.  Si tratta di un testo troppo lungo, e troppo fitto di indicazioni, per poterlo citare per esteso. Bastano però alcuni passaggi per darne il tono:

«A tutti i frati da riverire e molto amare […] e a tutti i frati semplici e obbedienti, primi e ultimi»

«Ascoltate, figli e fratelli signori miei, e prestate l’orecchio del vostro cuore»

«Pertanto, scongiuro tutti voi, fratelli, baciandovi i piedi e con tutta la carità di cui sono capace»

«Badate alla vostra dignità, fratelli sacerdoti, e siate santi, perché Egli è santo»

«Per questo motivo ammonisco ed esorto nel Signore»

«Perciò, ammonisco tutti i mei fratelli e li conforto in Cristo»

In quelle frasi compariva un lessico che aveva assunto un rilievo del tutto particolare nella regola approvata.

In verità, nella lettera si leggeva un’invocazione quasi accorata:

«Perciò del tutto scongiuro, come posso, frate Elia ministro generale mio signore, perché faccia osservare da tutti inviolabilmente la regola, e che i chierici dicano l’ufficio davanti a Dio […]. Io infatti prometto di osservare fermamente queste cose, come Dio mi darà la grazia».

Egli non mancava peraltro di esprimersi anche con durezza:

«Quei frati, poi, che non vorranno osservare queste cose, non li ritengo cattolici, né miei fratelli; non voglio neppure vederli né parlare con loro, finché non abbiano fatto penitenza. Lo stesso dico anche per tutti gli altri che vanno vagando, trascurata la disciplina della regola».

Anche quella lettera terminava comunque con una benedizione:

«E supplico gli stessi [ministri, custodi, guardiani] di custodire con sollecitudine e di fare osservare con grande diligenza le cose che vi sono scritte, secondo il beneplacito di Dio onnipotente, ora e sempre, finché vi sarà questo mondo.

Benedetti dal Signore voi che farete queste cose e il Signore sia con voi in eterno. Amen»

Conclusione

Da quando ho letto per la prima volta il “testamento” di Francesco d’Assisi, ogni volta che lo rileggo e lo cito mi coglie un’emozione, forse difficile da trasmettere. La sua vita volge al termine, il suo corpo è piagato. Eppure egli fa scrivere in questa admonitio: «E io con le mie mani lavoravo, e voglio lavorare» [T 20].

Negli ultimi tempi della propria esistenza Francesco fece anche scrivere:

«E non dicano i fratelli: Questa è un’altra regola; perché questa è rimembranza, ammonizione, esortazione, e mio testamento, che io, fratello Francesco piccolo, faccio a voi miei fratelli benedetti, per questo: affinchè osserviamo meglio cattolicamente la regola che abbiamo promesso al Signore» [T 34].

È più che chiaro che per frate Francesco la “regola” era rappresentata dal testo approvato da Onorio III. Egli lo ribadiva nel proprio “testamento”. In effetti, nel corso di quel testo si susseguivano diverse indicazioni, che miravano a ribadire la stretta osservanza di quella regula, nel momento in cui talune disposizioni papali riguardanti i frati ne svuotavano di fatto le prescrizioni. In verità, vuoi per le tensioni che scossero l’Ordine in merito alla sua identità “minorititica” vuoi per le pressioni papali volte a determinarne una configurazione funzionale agli orientamenti della politica ecclesiastica, si andava in un’altra direzione, paventata da Francesco, che però non fu in grado di impedirne il prevalere.

Avviandoci a concludere, ascoltiamo di nuovo le parole di frate Agostino Gemelli:

«questo amore soprannaturale è la forza di san Francesco, la spiegazione di tutta la sua vita, la ragione dello sviluppo sempre rinnovantesi della vita francescana. Con questo amore per Dio e per le sue creature, poggiato su motivi soprannaturali, egli ha esercitato un grande fascino su molti uomini e molti ha trascinato con sé mediante il suo esempio. […] Ora, perchè si sentono amati da lui come fratelli, gli uomini, tutti gli uomini lo amano»

E alla fine del “testamento”, la fraternità e la regula si confondono nell’amore di Francesco per i suoi fratres – e con queste parole si chiude:

«E chiunque le osserverà [la Regula e le sue parole], in cielo sia ripieno della benedizione dell’altissimo Padre e in terra sia ripieno della benedizione del diletto suo Figlio con il santissimo Spirito Paraclito e tutte le virtù dei cieli e tuttii santi.

E io, fratello Francesco piccolo, vostro servo, per quanto posso,vi confermo dentro e fuori questa santissima benedizione» [T 40-41].

 

Referenze bibliografiche

Le traduzioni delle sue parole sono ricavate da Francesco d’Assisi, Scritti. Padova, Editrici Francescane, 2002.

Le altre traduzioni sono tratte da Fonti francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi, Assisi, Movimento francescano, 1977.

Agostino Gemelli, Il Francescanesimo, Milano, Vita e Pensiero, 1956 (1° ed. 1932): i passi riportati sono alle pagine 30-32.

Si vedano anche di Roberto Rusconi:

«Moneo atque exhortor … Firmiter praecipio». Carisma individuale e potere normativo in Francesco d’Assisi, in Charisma und religiöse Gemeinschaften im Mittelalter, a cura di G.  Andenna, M. Breitenstein e G. Melville, Münster, LIT, 2005, pp. 261-279

La formulazione delle regole minoritiche nel primo quarto del secolo XIII, in «Regulae Consuetudines, statuta». Studi sulle fonti normative degli ordini religiosi nei secoli centrali del Medioevo, a cura di C. Andenna e G. Melville, Münster, LIT, 2005, pp. 461-481

«Clerici secundum alios clericos»: Francesco d’Assisi e l’istituzione ecclesiastica, in Frate Francesco d’Assisi (XXI Convegno internazionale di studi francescani. Assisi, 14 16 ottobre 1993), Spoleto, C.I.S.A.M., 1994, pp. 71-100.

(questi testi si trovano anche in Roberto Rusconi, Studi francescani, Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2021).