
Alla presentazione di un libro sulla storia della provincia dei Cappuccini, a Genova nell’autunno 2022, comparve l’arcivescovo, Marco Tasca, che continuava a vestire l’abito del proprio Ordine dei frati Minori conventuali, pur indossando uno zucchetto rosso, a indicare la dignità e il ruolo ecclesiastico da lui ricoperti. In quel momento mi è tornata alla memoria la vicenda del cardinale cappuccino Raniero Cantalamessa, che chiese di non essere ordinato vescovo (una consacrazione invece prescritta per i cardinali dall’attuale Codex Iuris Canonici). Predicatore apostolico, le fotografie lo hanno ritratto anch’egli con l’abito del proprio Ordine e con lo zucchetto. Questi episodi hanno ridato consistenza ad alcuni interrogativi sul condizionamento che taluni comportamenti del passato possono esercitare su un rinnovamento della Chiesa cattolica.
Molti secoli sono trascorsi a partire dal secolo XII, quando la riforma della Chiesa romana – nel contesto dello scontro vittorioso con l’impero germanico – mise in atto alcune innovazioni istituzionali che ne hanno delineato l’assetto per il tempo a venire, sia pure con le trasformazioni verificatesi man mano. Ciò appare innegabile per quanto riguarda i cardinali, la cui originaria funzione liturgica è evoluta sino a pervenire al ruolo eminentemente decisivo di collegio elettorale per la scelta di un nuovo papa, a partire dall’anno 1059. Stretti collaboratori del papa regnante, dalla fine del ‘500, con la nascita delle Congregazioni vaticane, dei cardinali ci si è avvalsi per la gestione dei “ministeri” della Chiesa cattolica.
Se non si vuole ricadere negli estetismi rinvenibili nelle lettere aperte sottoscritte anche da un ampio numero di non credenti, turbati dalla rimozione degli orpelli che ai loro occhi giustificherebbero il mantenimento di antichi rituali (il cui senso invero si è man mano esaurito), si deve partire da una rilevazione molto concreta, degli effetti collaterali connessi con l’incremento dei membri del collegio cardinalizio: facendo riferimento a cifre simboliche, passato dalla dozzina di sapore apostolico al numero di settantadue dei discepoli delle origini, sino a dilatarsi al numero dei centoventi elettori di età inferiore agli ottanta anni. La riforma “elettorale” di Paolo VI del 1970 – al momento senza dubbio volta a obiettivi molto immediati – a distanza all’incirca di mezzo secolo ha comportato che il numero dei cardinali ultraottantenni non elettori corrisponda all’incirca al numero dei cardinali elettori.
Pur non essendo di immediata rilevanza, si ricordi essere tuttora in vigore una suddivisione del collegio in tre ranghi, tra cardinali vescovi, cardinali presbiteri e cardinali diaconi (dal punto di vista sacramentale, comunque tutti ordinati vescovi): una tripartizione che faceva diretto riferimento all’ordinamento della Chiesa in Roma nel secolo XI. Ne risulta una veste a tal punto stretta, che provvedimenti papali ad personam intervengono ad aggirarne le contraddizioni: ad esempio il numero ridotto dei “cardinali vescovi”.
La responsabilità universalmente nota del collegio cardinalizio corrisponde alla sua funzione di organismo elettorale di un nuovo romano pontefice. A più riprese, quando sono state avanzate suggestioni in vista di una modifica di tale competenza, si è ribattuto con non dissimulata alterigia che la Chiesa cattolica non è una democrazia parlamentare, i cui organismi hanno carattere rappresentativo. Eppure, a suo modo, il collegio cardinalizio ha pur sempre ricoperto un distorto ruolo di rappresentanza di altre istanze: in età medievale delle potenti famiglie romane; in età rinascimentale delle dinastie signorili… e arrivando più vicino ai nostri giorni, della Curia romana ovvero delle Chiese di determinati paesi.
Un notevole effetto di distorsione dipende in verità dal carattere autocratico delle nomine cardinalizie ad opera dei singoli pontefici. Non si sottovaluti, infine, che la coincidenza nella figura del neo-eletto sia del romano pontefice e sia del vescovo di Roma comporti una designazione del vescovo di Roma con modalità comunque del tutto difformi dalle procedure previste per ogni altro vescovo.
Padre Raniero Cantalamessa ha richiesto, e ottenuto, di essere esonerato dalla consacrazione episcopale, che un provvedimento di Giovanni XXIII del 1962 prescriveva per quanti venissero elevati alla dignità del cardinalato (che è di per sé un ufficio ecclesiastico, non conseguito sulla base di una celebrazione sacramentale). Nel caso di padre Cantalamessa, e di altri chierici elevati al cardinalato quando già avevano superato il limite degli ottanta anni, si è trattato di un riconoscimento privo di qualsiasi rilevanza istituzionale, anche se non scevro di un ricercato valore esemplare. La motivazione sostanziale, avanzata dal cardinale cappuccino, era inoppugnabile. Per la sua età e per la sua collocazione in un appartato monastero del reatino, egli non avrebbe mai avuto modo di esercitare le funzioni inerenti al ministero episcopale.
Vi furono precedenti significativi. Nel 1969 Paolo VI propose a un illustre gesuita, Henri De Lubac, di essere elevato al cardinalato. Egli rifiutò, affermando che il requisito della consacrazione episcopale fosse «un abuso dell’ufficio apostolico». Nel 1983 Giovanni Paolo II rinnovò la proposta, che fu accettata, dal momento che De Lubac fu esentato dalla consacrazione episcopale (sempre nel 1969, invece, un altro illustre gesuita, Jean Danielou, ricevette la berretta cardinalizia e la consacrazione episcopale).
Nel 1994 fu la volta del domenicano Yves Congar, creato cardinale, ma dispensato dalla consacrazione episcopale non soltanto per l’età avanzata, ma soprattutto per le pessime condizioni di salute. A sua volta il gesuita Roberto Tucci, che con grande impegno ha organizzato i numerosi viaggi di Giovanni Paolo II, è stato creato cardinale nel 2001, alla vigilia del compimento degli ottanta anni di età, ottenendo di non essere consacrato vescovo.
A Paolo VI risale dunque una decisione di ricorrere alla designazione al cardinalato per tributare un riconoscimento a una figura esemplare, come don Giulio Bevilacqua, il parroco bresciano che fu cardinale per alcuni mesi nel 1965. Fu consacrato vescovo di Gabaudia, una diocesi del V secolo nell’antica Numidia, in corrispondenza dell’attuale Algeria, divenuta “diocesi titolare” nel 1933, e divenne cardinale diacono della chiesa romana di S. Girolamo della Carità, elevata a diaconia soltanto alcuni mesi prima. In connessione con le ripetute nomine cardinalizie degli ultimi decenni si è accentuata in effetti la moltiplicazione dei vescovi titolari di diocesi a volte non esistenti nemmeno sulla carta e anche delle chiese romane, magari recentissime, cui è attribuita la funzione di coincidere con il “titolo” corrispondente alla dignità cardinalizia.
È davvero banale richiamare in qual modo l’ufficio del vescovo sia profondamente modificato nel corso dei due millenni della storia cristiana. Di rilievo fu soprattutto la messa in disuso di un canone del concilio di Nicea del 325, che impediva a un vescovo di trasferire il proprio ufficio a un’altra diocesi. Attorno a quel divieto ruotò il famigerato processo che si concluse con la condanna postuma di papa Formoso, quando nell’anno 897 le sue spoglie furono esumate e gettate nel Tevere. Eppure proprio da allora tale divieto divenne inefficace.
«In partibus infidelium» era la designazione di vescovi che, a partire dall’espansione islamica nel Vicino Oriente, si pretendeva di nominare in sedi episcopali di cui si auspicava il recupero (che peraltro non avvenne mai). A un certo punto, a fine ‘800, si introdusse la prassi di consacrare “vescovi titolari” di antiche diocesi, non più esistenti: arrivando all’assurdo di farlo anche per diocesi mai esistite, al contrario ritenute tali un errore di interpretazione di un antico documento (come è in effetti avvenuto per Georg Gänswein).
In verità la consacrazione episcopale è divenuta nel tempo una questione di nomenclatura ecclesiastica, dal momento che gerarchia sacramentale e ordinamento istituzionale sono stati fatti coincidere, con un duplice risvolto. Se nella dottrina elaborata per secoli dalla teologia la consacrazione episcopale costituisce la pienezza del sacramento dell’ordine, da un lato ciò colloca un vescovo in una posizione di superiorità rispetto ai semplici sacerdoti, e dall’altro lo colloca al vertice indiscusso di un ordinamento al cui interno rientrano tanto i chierici quanto i laici.
Che da tale impostazione possano derivare potenziali distorsioni lo si rileva se si prende in esame la figura del nunzio apostolico, vale a dire il diplomatico ecclesiastico inviato a rappresentare la Santa Sede presso le autorità di un determinato paese e presso il suo episcopato. Se al nunzio compete, tra l’altro, l’onere di formulare in forma definitiva la terna di nominativi da proporre a Roma perché venga nominato il titolare di una sede episcopale, appare conseguente che soltanto un vescovo abbia l’autorità per confrontarsi con i vescovi di quel paese. Ciò è ovvio nel contesto che è stato appena delineato (si noti che l’attuale Codice di diritto canonico preveda che egli possa richiedere eccezionalmente anche il parere «di laici distinti per saggezza»).
In sostanza si produce, però, una immane distorsione ecclesiologica, nel momento in cui si moltiplicano i pastori che per definizione non hanno un gregge, se si vuole descrivere tale situazione con un’immagine immediatamente esplicativa (per approfondire questo discorso si dovrebbe riflettere anche sulle figure del “vescovo emerito” e del “vescovo ausiliare”, che incarnano una pluralità di vescovi all’interno della medesima diocesi).
Analoghe considerazioni si possono avanzare a proposito degli organismi della curia vaticana. In verità, non poche nomine recenti in diversi ruoli degli organismi vaticani da parte di papa Francesco hanno riguardato sia laici sia religiosi, ai quali peraltro in tale contesto non è possibile raggiungere un ruolo apicale, in quanto non inclusi nella gerarchia sacramentale. Per altri versi, il rifiuto di alcuni sacerdoti di progredire nello stesso tempo nella gerarchia sacramentale e nella carriera istituzionale indica quale possa essere l’orientamento destinato a spezzare una sorta di corto circuito ovvero circolo vizioso.
Non è soltanto vacua retorica sostenere che i tempi della Chiesa non coincidono con i tempi della storia. Ciò può essere stato sostanzialmente vero per le epoche passate, quando le inevitabili trasformazioni della società si verificavano con scansioni cronologiche diluite appunto nel tempo: in tal modo poteva non verificarsi una palpabile discrasia tra la realtà del mondo e la presenza dei cristiani nella storia. Negli ultimi due secoli non vi è dubbio alcuno che si sia verificata una forte accelerazione delle dinamiche sociali e politiche, rispetto alle quali almeno la Chiesa cattolica ha spesso dato la sensazione di arrancare per non perdere il passo.
A dire il vero negli ultimi decenni quei ritmi sono divenuti alquanto frenetici, inducendo per reazione la gerarchia ecclesiastica, e anche una parte non insignificante di fedeli, a trovarsi nella posizione di frenare, se non di ostacolare, i mutamenti. In genere accampando l’importanza di una tradizione che, peraltro, il più delle volte coincideva con la sclerotizzazione di comportanti manifestatisi in verità negli ultimi secoli, e magari soltanto nei due secoli appena trascorsi.
Senza impiccarsi alle parole, si tratti dell’«aggiornamento» di Giovanni XXIII ovvero di rinnovamento oppure di riforme, e così via, non solo il futuro, ma soprattutto il presente della Chiesa cattolica non può essere condizionato dal peso di un passato di cui si gabella la fisionomia per l’autenticità. Non se ne esce certo in tempi raccorciati, anche se le vere trasformazioni iniziano nella quotidianità, ma sicuramente anche il tempo della Chiesa è di necessità divenuto alquanto breve.
Testo ricavato da Il peso del passato, ostacolo al rinnovamento del cattolicesimo, in «Humanitas» 77 (2022), 1-2, pp. 301-304.